domenica 5 febbraio 2012

Gli italiani e la mania del posto fisso


Negli anni sessanta, quando il motore Italia era al massimo dei suoi giri per lasciarsi indietro le tragedie della guerra, le industrie avevano ripreso la loro produzione e la ricostruzione era ormai una realtà consolidata, il sogno di tutti i genitori era poter dare ai figli quel benessere e veder realizzate per loro quelle speranze di cui non avevano potuto usufruire essi stessi per un dannato conflitto che aveva trascinato l'Italia in uno stato di miseria.
Un genitore che riusciva a far diplomare o laureare un figlio, a costo di immensi sacrifici, aveva coronato il sogno della sua vita. Un figlio laureato o diplomato significava la certezza di un posto di lavoro in qualsiasi azienda, se poi fosse entrato in un settore della pubblica amministrazione era come aver fatto un 13 al totocalcio. Sì, perché allora se volevi giocare e tentare la fortuna c'era soltanto il lotto e il totocalcio. Oggi c'è l'imbarazzo della scelta come poter giocare quei pochi soldi che ci danno la possibilità di un sogno che poi difficilmente si avvera, per cui continuiamo a ingrassare lo Stato che ormai è l'unico biscazziere legalizzato.
Per cinquanta e passa anni entrare a lavorare nella pubblica amministrazione ha avuto un solo significato: avere il posto fisso per eccellenza. Una anomalia tutta italiana, causata da una fame antica. Un uomo o una donna inizia a venti-venticinque anni e ne esce a sessanta o anche meno per andare in pensione. Anche nelle grandi fabbriche, pur se in modo diverso, si è ottenuto lo stesso risultato. A questo ci hanno pensato le battaglie sindacali, il lassismo dello Stato e dei politici a concedere sempre e tutto nelle concertazioni, il famigerato art. 18 intoccabile perché alla base di una conquista che si poteva acquisire solo in Italia; in ogni caso l'azienda in difficoltà, avrebbe poi chiesto e ottenuto dallo Stato gli aiuti e le sovvenzioni perché il baraccone non crollasse.
Oggi che siamo al redde rationem, costretti a raschiare il fondo della pentola con la speranza di tirar su qualcosa, ci accorgiamo improvvisamente che se si spende più di quanto si produca, bisogna rifare i conti perché qualcuno ci ha fregato. Il popolo italiano non riesce ancora a credere ai suoi occhi. Sì, è vero, c'è una crisi mondiale che ci attanaglia, ma l'Italia non è entrata in crisi in questi ultimi due anni. L'Italia è in crisi da almeno dieci anni, da quando non c'è crescita produttiva, e la ricchezza di una nazione sta nella produzione. Noi invece, anzi i nostri politici, hanno speso più di quanto abbiamo prodotto, abbiamo avuto la peggior classe politica inetta e incapace da quando esiste l'Italia, unita solo quando ha pensato ai propri emolumenti, poi invece litigiosa, affaristica, corrotta.
Ci ritroviamo, così, con un governo tecnico votato da nessuno, voluto da un Presidente che - non richiesto e non costituzionalmente - ha in pratica preso le redini del potere indirizzandoci, oggi, verso ulteriori sacrifici economici che gli italiani non riescono più a sopportare, anche perché si accorgono che quelli che dovrebbero essere i primi a rinunciare a una parte degli stipendi faraonici sono in realtà i più ritrosi. Sappiamo oggi che il tesoriere della Margherita ruba 13 milioni di euro e tutto rientra nella normalità. Addirittura il ladro vuole patteggiare restituendo solo 5 milioni. Patteggiare? In qualsiasi altro Stato sarebbe già in galera per cinquant'anni, in Italia si tratta una parte della restituzione: E poi restituire a chi? Alla Margherita? Questi sono soldi tolti dalle tasche degli italiani in modo truffaldino, perché i partiti devono sovvenzionarsi da soli. E perché, in ogni caso, dovremmo foraggiare un partito che non esiste più?
In ogni caso ci pensa nonno Mario a tirarci su, rompendo per noi la monotonia del posto fisso. Se una giovane coppia vuol pensare al suo futuro comprandosi una casetta, basta che vada in banca a chiedere un mutuo presentando le credenziali: non abbiamo un posto fisso perché siamo dinamici e soprattutto siamo i nipoti di nonno Mario.
Egregio Presidente del Consiglio, in fondo in fondo potrei anche credere nella sua buona fede, non so se avrà la capacità di tirarci fuori dalla cacca, e per questo ne potremo parlare tra qualche anno, ma certamente le manca il contatto diretto con la gente. Lei ha vissuto troppo tempo nei saloni delle banche, nelle aule universitarie e nelle sale dei palazzi istituzionali europei, è anche molto stimato a livello europeo per le sue indubbie qualità professionali, ma quando si hanno a disposizione mensilmente parecchie migliaia di euro di stipendio, riesce poi molto difficile entrare nei bisogni quotidiani di gente, che non riesce ad arrivare a fine mese quando è occupata, né tampoco capire il malessere morale e fisico del disoccupato a cui basterebbe arrivare anche a fine giornata. Questa gente a cui lei rimprovera la monotonia del posto fisso, ci morirebbe volentieri di noia su quel posto, il guaio è che oggi non può neanche annoiarsi perché il posto di lavoro o non lo trova o l'ha perso.





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